sabato 16 febbraio 2008

Il Fiore della Terra

Tocca al dodicesimo capitolo.
Attenzione, questo è tosto!!!
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Verona, lunedì 7 Ottobre 2097, ore 10,00.


Acabo si guardò attorno. La passeggiata di piazza Brà, o meglio il “Listòn” come si ostinava a chiamarla suo padre, era affollata, complice la bella e dolce giornata autunnale.
L’Arena romana, di recente restaurata ed imbiancata a calce (per difenderla dalle muffe, dal muschio e dalle piogge acide, sostenevano le autorità cittadine) stava riempiendosi di folla vociante.
Maryam, Mauro e gli altri amici non erano ancora arrivati. Acabo si soffermò a leggere l’ordinanza del Tribunale Islamico affissa sulle locandine che un tempo ospitavano i manifesti della stagione lirica.
Le opere e i balletti che avevano resa famosa l’Arena di Verona non si rappresentavano più da molti anni.
Spettacoli troppo futili e inverecondi, si era detto, d’ispirazione occidentale, fuorvianti per la moralità di donne e giovani. Figuratevi che le donne vi cantavano e recitavano, spesso discinte, rappresentando personaggi libertini e di generosi costumi!
Gli spettacoli lirici erano stati per qualche tempo rimpiazzati da eventi “progressisti” organizzati dalle cooperative dei Centri Sociali. Con scarso successo.
Acabo si concentrò sull’ordinanza, della quale peraltro già conosceva il contenuto.
Suleyma, trentasette anni, musulmana, colta in flagrante adulterio con un manovale di religione cristiana in una macchia di larici, nei pressi di Boscochiesanuova, doveva essere lapidata oggi, secondo il rito islamico e il volere di Allah.
Le esecuzioni capitali, fustigatorie e amputatorie venivano infatti eseguite in Arena, pubblicamente.
Acabo, Maryam, Mauro e altri amici si erano dati appuntamento per partecipare alla rituale manifestazione contro la pena di morte.
Non era vietato ai cristiani manifestare dissenso, purché non trascendessero in azioni dirette ad ostacolare il corso della giustizia.
Manifestazioni insomma tollerate, ancorché inascoltate.
La Sharia, la Legge Islamica, era stata inizialmente applicata solo per taluni reati contro la morale, la persona e il patrimonio (omicidio, adulterio, sodomia, furto e rapina, ubriachezza, uso di droghe o di alcolici, detenzione di materiale pornografico) commessi da appartenenti alla comunità islamica. I cristiani continuavano ad essere giudicati a norma della legge italiana, detta “comune”.
In seguito, sentenze, interpretazioni autentiche e decreti avevano sfumato il confine, un tempo rigido e netto, tra i due sistemi giudiziari.
La Sharia ora si applicava anche ai cristiani che avessero commesso tali reati in concorso con musulmani. Di più: la parte lesa, cristiana o musulmana che fosse, aveva facoltà di chiedere, con atto formale entro il termine perentorio di trenta giorni dall’accertamento del reato, l’applicazione della legge islamica.
Era pertanto divenuto frequente che mariti cristiani traditi (l’adulterio restava reato sostanzialmente femminile) chiedessero l’applicazione della Sharia nei confronti delle mogli fedifraghe, per motivi d’odio e vendetta.
Frequentissimo era l’esercizio di tale opzione in caso di furto e rapina: l’applicazione della Sharia, con pubblica amputazione della mano e d’altri arti in caso di recidiva, aveva reso rarissime tali fattispecie di reato, con indubbia e generale soddisfazione del popolino.
Eventuali conflitti di giurisdizione fra Tribunali Comuni e Tribunali Islamici erano regolati da una Suprema Corte formata, in numero pari, da Ulema e da Consiglieri di Cassazione.
Tale Suprema Corte di Regolamento di Giurisdizione era presieduta di diritto dal Gran Muftì che, avendo diritto di voto decisivo in caso di parità, faceva di solito pendere la bilancia in favore della giurisdizione islamica.

Ciao Acabo!
Gli amici erano finalmente giunti.
Entriamo in Arena, è ora.
L’Anfiteatro era già gremito. Le prime due file di gradoni erano riservate agli spettatori di religione islamica, alla parte lesa ed ai suoi parenti, a coloro cioè che avevano facoltà di lanciare le pietre.
Piccole piramidi di sampietrini erano state a tale scopo disposte, ad intervalli regolari, lungo il parapetto che delimitava l’ovale dell’arena vera e propria.
Un apposito settore della gradinata, più in alto e transennato, era riservato ai gruppi dissenzienti, che inalberavano striscioni e cartelli con scritte di contenuto contrario alla pena di morte ed alternavano canti e slogans ritmati di analogo tenore.
Mauro, che era intervenuto malvolentieri, espresse la sua perplessità.
Ma che ci veniamo a fare qui, se non serve a niente, solo a farci schedare da qualche spione? Abbiamo cose più importanti da fare, che richiedono riservatezza. Dovremmo scomparire, non apparire!
Acabo assentì. Dobbiamo ripensare il nostro comportamento! Questa è una causa giusta, ma politicamente ci danneggia.
Maryam intervenne con calore.
Può anche darsi, ma queste manifestazioni hanno avuto il risultato di umanizzare la pena, non è vero che non servono a niente!

In un certo senso Maryam aveva ragione.
La condannata o il condannato a morte per lapidazione veniva sepolto fino alle spalle al centro dello spiazzo deputato a tal evenienza.
Gli astanti lanciavano i sampietrini da una certa distanza, mirando alla testa rimasta insepolta.
Spesso le prime pietre colpivano solo di striscio o di rimbalzo, provocando ferite dolorosissime, con conseguenti urla strazianti.
Tale spettacolo era raccapricciante e dava esca a feroci critiche, specie sulla stampa estera.
Il Supremo Consiglio degli Ulema, sensibile ai problemi d’immagine e allo stesso tempo desideroso di preservare le forme, aveva escogitato una procedura più umana.
A circa due metri d’altezza, sulla perpendicolare della testa del condannato, veniva sospesa una pietra pesante circa un quintale.
Un marchingegno elettronico collegava l’aggancio della pietra ad un sensore posto all’interno di una sorta di testa di turco, di ceramica dipinta in modo molto realistico, posta a circa quindici metri di distanza.
Gli esecutori dovevano lanciare le pietre contro la testa di turco. Quando essa, colpita più volte, si rompeva, la pietra si sganciava automaticamente, cadendo sulla testa del condannato che restava accoppato all’istante, senza sofferenza e senza urla e gemiti incresciosi.

In tal modo era stata predisposta l’esecuzione di Suleyma.
Quando Acabo e i suoi amici presero posto nel settore dissenzienti, la condannata era già stata sepolta e incappucciata. La testa della sventurata, probabilmente sedata, oscillava ritmicamente da destra a sinistra. I gruppi cristiani dissenzienti intonarono canti e slogans, sotto l’occhio attento delle Guardie della Virtù della Fede addette al servizio d’ordine, armate di mitraglietta e scimitarra.
I musulmani già gremivano i primi gradoni, palleggiando i sampietrini.
Un Ufficiale Giudiziario, in barracano e turbante nero, diede lettura del dispositivo della sentenza.
Alla fine della lettura, gridò: in nome di Allah, il Misericordioso, si proceda!
Partirono le prime pietre. Solo una colpì la testa di ceramica, senza romperla.
I lanciatori aggiustarono il tiro. Più pietre colpirono la testa di turco che finì col frantumarsi.
La pesante pietra cadde di schianto, con un tonfo sordo. Sangue e materia cerebrale schizzarono intorno.
Era finita.

Andiamocene, disse Acabo. Io qui non ci torno più. Non è con canti e cartelli che si combatte questo schifo.
Gli altri tacquero.
Hai ragione, concluse Maryam.
Se ne andarono in silenzio, mentre i becchini rimuovevano la pietra e impugnavano le vanghe.
Vicino, un sacco nero, con la cerniera.
Giustizia è fatta! Proclamo l’Ufficiale Giudiziario.




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