domenica 6 aprile 2008

Il Fiore della Terra

Siamo al 28° capitolo.
Ci avviciniamo lentamente alla fine.
Buona lettura!
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Palermo, martedì 6 maggio 2098, ore 06,30.


Tarick ben Zakat, musulmano d’etnia nordafricana nato in Italia, era alto e magro. Il naso adunco, le sopracciglia cespugliose, gli occhi nerissimi ed infossati, la bocca grande e le labbra sottili che scoprivano denti sgangherati davano al suo volto un’espressione vagamente drammatica.
E lo stava vivendo il suo dramma personale Tarick, a quell’ora, su un molo del porto di Palermo con la moglie Amina e i cinque figli tutti tra i quattro e i quattordici anni d’età, stanchi e nervosi per aver dovuto trascorrere la notte in macchina, un vecchio pick-up a turbina degli anni ’60.
Non aveva voluto spendere soldi in albergo Tarick. I pochi risparmi di una vita di lavoro dovevano servire per rilevare un negozietto di tappeti ed artigianato vario a Tiznit, in territorio di Giovane Italia, ceduto da cristiani che rientravano in madre patria.

Non era stato facile convincere Amina. Figlia orfana di padre musulmano e di madre d’etnia italica, conservava buone relazioni con i parenti italiani.
Amina era bassa e grassoccia ma di carattere aspro a dispetto dell’apparenza paciosa. Si era opposta duramente alla decisione di Tarick di abbandonare l’impiego presso l’Ufficio Annonario di Asti e di tentare la ventura in terra d’Africa.
Convinta non era ancora, Amina. E persisteva nel rimbrottare il marito per una decisione che lei si ostinava a definire scellerata.
E Tarick a ripetere gli argomenti di sempre: in Italia non c’era futuro, lo stipendio era misero e non bastava nemmeno a vestire i figli e a pagare le spese di riscaldamento durante i lunghi, freddi inverni astigiani, a Tiznit avevano la possibilità di rilevare un’attività ben avviata e di ottenere un mutuo senza interessi restituibile in ben quindici anni…
L’Italia è miseria, l’Africa è il futuro, affermava. In fondo, gli italiani che un tempo erano ivi emigrati non avevano fatto tutti fortuna? Ora toccava a noi, Tarick ed Amina!

L’uomo si guardò attorno, ad osservare tutta quella gente accampata come loro, ad attendere il traghetto che doveva condurli verso il sogno, forse verso l’illusione.
Vedi quanti bravi musulmani attorno a noi? disse ad Amina. Tutti attendono la nave, ed è così ogni volta, due volte la settimana. Che ne dici? Tutti stupidi, tutti vigliacchi, tutti fuggiaschi?
Amina, donna di profonda fede religiosa non sembrava ancora convinta.
Parlò, con voce tagliente.
Tarick, tu ti sei fatto bere il cervello. Ora stai attendendo la nave come se fosse Al Buraq, la creatura volante con viso di donna, zampe di cammello, coda di bovino e un rubino al posto del cuore che Maometto, sia gloria a lui, cavalcò per volare al Tempio di Gerusalemme e poi ascendere al settimo cielo. Solo che noi a Gerusalemme non andiamo, e tantomeno al settimo cielo, ma in un paese lontano al quale siamo ormai estranei.
Ma quali estranei! ribatté Tarick. Là sono le nostre radici. La nostra patria è dove vige la legge di Allah, il protettore misericordioso. E’ volere di Allah che i buoni musulmani si riapproprino delle terre fertili e ricche che appartennero ai loro progenitori. Lo ha detto anche il nostro Imam, che Allah lo benedica!

Tale argomentazione ridusse al silenzio, almeno per un poco, Amina, che tuttavia continuò a borbottare.
E’ il tuo sangue misto, la parte infedele del tuo sangue che ti sobilla!, proseguì Tarick, nel tentativo di sfruttare il successo.
Fu troppo. Amina, visibilmente offesa, si rinchiuse nel più assoluto silenzio. I bambini più piccoli, con gran tempismo, iniziarono a piangere in coro. Probabilmente avevano fame. In mare aperto mangeremo!, promise Tarick. Ma loro non intesero ragione.

Il traghetto stava arrivando, finalmente. Una vecchia carretta del mare dall’aspetto poco rassicurante, battente bandiera della Confederazione Islamica. Ormai il dado era tratto, era troppo tardi per tirarsi indietro. S’imbarcarono con qualche esitazione. La nave era strapiena. La traversata per Algeri doveva durare un giorno e una notte, e il mare era un po’ mosso.
Tarick andò a confabulare con un marinaio e poi si rivolse ad Amina.
Dice che per avere una cabina bisogna pagare un extra.
Vorrai dire un baksish. Ecco i tuoi nuovi fratelli!, sbottò la donna.
Niente cabina allora. Risolsero di sistemarsi sul ponte. Tarick prese dalla macchina un rotolo di coperte per la notte.
Una volta salpata la nave, la stiva sarebbe infatti rimasta chiusa, fino all’arrivo.

Si organizzarono in un angolo di ponte, semicoperto, vicino alla porta del servizio igienico. C’era vento, l’aria era frizzante. Una famigliola si era accampata di fianco a loro. Marito e moglie giovani, un bambino di tre anni.
Hassan Osman, si chiamava l’uomo. Aveva gestito un chiosco di piadina e kebab sul litorale di Rimini. Un lavoro prevalentemente stagionale, disse, che tuttavia permetteva di sopravvivere tutto l’anno.
La moglie Irina faceva lavori di piccola sartoria per arrotondare, come la moglie di Tarick. Le due donne fraternizzarono, isolandosi a parlare fitto, a bassa voce.
I due uomini invece parlarono a voce alta di prospettive, d’affari.
Hassan non aveva un progetto preciso. Pensava di raggiungere Giobertide e di guardarsi attorno, di cercare lavoro. Avendo ceduto il chiosco disponeva di un gruzzolo sufficiente ad aprire una piccola sartoria o a chiedere l’assegnazione di un pezzo di terra da coltivare. Hassan si fidava del suo Imam, e l’Imam aveva assicurato che gli italiani stavano abbandonando in massa case e terra in Giovane Italia, e che ce ne sarebbe stato abbastanza per tutti i buoni musulmani.

Ci sarà da lavorare, commentò, ma sarà sempre meglio che in Italia dove i prezzi aumentano e i denari calano! E poi hanno promesso i mutui. Abbastanza per avviare una piccola attività! E poi, concluse, è il volere di Allah, così ha detto l’Imam. Allah il misericordioso ci proteggerà e il fiore della terra sarà finalmente nostro!
Hassan era di lontane origini albanesi.
Perché non vai in Albania? chiese Tarick.
Ci ho pensato, rispose Hassan, ne ho parlato anche con l’Imam. Ho deciso per il Norfdafrica, l’Albania fa parte dell’Unione Europea, non ci sono più buoni musulmani perché si sono integrati nelle corrotte usanze europee. Il mio Imam, che Allah e Maometto proteggano sempre quel sant’uomo, mi ha detto che bevono vino e mangiano prosciutto! E poi Maometto, a lui la benedizione e la gloria di Allah, è stato uomo d’Asia e d’Africa, non d’Europa, che Allah lo protegga e l’abbia in gloria.

Tarick assentì, pensieroso.
Il discorso si spostò sulla critica situazione economica italiana.
Tutta colpa dei cristiani miscredenti, affermò Tarick che, lavorando nell’Ufficio Annonario aveva potuto costatare il progressivo azzeramento della produzione agricola.
Nessuno conferisce più alcunché all’ammasso! proseguì. Cani cristiani che non hanno voglia di lavorare. Si tengano pure la loro Italia rovinata e la loro miseria, e ci rendano le ricche terre di Giovane Italia da loro usurpate.

Ma quale Giovane Italia!, ribatté Hassan. Appena se ne saranno andati via tutti saremo noi i padroni, e rinomineremo quelle terre “Antico Islam”!

Risero assieme, a lungo. La nave era ormai in mare aperto. I ponti alle spalle erano tagliati, non c’era più ritorno. Un misto di paura e d’eccitazione era evidente in tutti.
Era ora di preghiera, ed un Muezzin intonò i versetti del Corano dai gracchianti altoparlanti di bordo. Tutti stesero sul ponte le preghiere e si prosternarono in direzione della Mecca.
Allah non può abbandonarci, non può deluderci, pensò a voce alta Tarick.
Amina, prosternata accanto a lui, rimase in ringhioso silenzio.
Almeno non protesta più, meglio di niente, rifletté Tarick.
In silenzio, questa volta.


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