mercoledì 16 aprile 2008

Il Fiore della Terra

Il 31° capitolo è veramente divertente, almeno secondo me.
Leggetelo e poi ne parliamo! Siamo comunque vicini alla fine dell'opera.
Cirno
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Milano, sabato 5 luglio 2098, ore 21.30.



Fadel Abbas Nader abbassò sul viso il passamontagna. La giornata era stata calda e piovosa, con visibilità limitata. Quel che ci voleva, insomma. I ragazzi avevano già badato a rompere a sassate alcuni lampioni e la strada stretta e poco frequentata che conduceva ad uno degli ingressi secondari del Centro Sociale era quasi completamente buia.

I “fedajn”, tutti volontari, erano una trentina. Spalle larghe, tute mimetiche, passamontagna sotto la kefiah a losanghe bianche e nere, unico segno della loro appartenenza al Corpo delle Guardie della Fede. Spranghe, catene e randelli erano le sole armi visibili. Coltelli e pistole non erano in mostra, ma probabilmente non mancavano. I sei capo-squadra erano muniti anche di fumogeni e di petardi stordenti.

Fadel si accostò alla porta, solitamente adibita all’ingresso di derrate e bussò secondo un codice prestabilito. Alcuni buoni musulmani lavoravano all’interno del Centro quali uomini di fatica o gestori dei banchi di vendita del piccolo bazar. Uno di loro si era offerto di aprire la porta di servizio, che di norma era sprangata dall'interno. La porta infatti si aprì, con uno scatto leggero.

Tutti pronti? chiese Fadel. I capi diedero conferma, dopo il brusio del passaparola.
Entriamo allora. Mi raccomando, non voglio morti. Spaccate tutto, per la maggior gloria d’Allah, il Signore dei Mondi. Ma niente morti se possibile. L’ultimo chiuda la porta alle sue spalle. Muhammad, tu che conosci il posto, guidaci alla sala del teatro.
Muhammad, uno dei capi, che aveva lavorato in passato presso il Centro, si avviò con sicurezza lungo un corridoio semibuio ingombro di casse e scatole di cartone.
Un brusio indistinto si fece sempre più forte, mentre avanzavano. Suoni, musiche, grida, sghignazzate. La “recita” stava evidentemente iniziando, o era già iniziata.

Giunsero alla fine ad una porta imbottita, munita di spioncino. Rumori e schiamazzi erano ormai fortissimi dall’altra parte. Fadel socchiuse lo spioncino e diede un’occhiata. Ciò che vide in primo piano lo fece arretrare di colpo, il volto contratto dall’indignazione e dall’orrore.
Tre figuranti vestiti da Re Magi (questa almeno era l’intenzione del regista, ma i costumi di foggia fantasiosa potevano ben farli apparire quali principi o dignitari arabi d’epoca alto-medievale) palpeggiavano i posteriori sconciamente scoperti di alcune pretese cortigiane persiche, addobbate alla maniera di Salomé con relativi veli che ben poco celavano.
Fadel non ebbe alcun dubbio, prevenuto com’era.
Stanno disonorando il Profeta e i suoi Califfi! , sbraitò. Addosso agli infedeli blasfemi!

Non ci voleva altro per scatenare quegli esagitati, cui da tempo prudevano le mani. Abbattuta la porta si scagliarono all’interno, lanciando petardi ed urlando come ossessi.
La confusione divenne subito enorme e qualsiasi resistenza impossibile. Randelli e catene mulinati all’impazzata nel mucchio fecero il loro effetto. La folla dei figuranti e degli improvvisati attori si aprì, ondeggiò e si diede a caotica fuga verso le uscite principali del teatro, insufficienti a smaltirne l’impeto.
I buttafuori del servizio d’ordine furono travolti e lo stesso Ataulfo Tomaia, esanime con i denti rotti e la faccia spaccata da un fendente di spranga, fu trascinato via per i piedi dal suo guardaspalle.
Si udirono alcuni colpi di pistola, mentre un principio d’incendio, appiccato dai petardi ai pesanti tendaggi, stava facendosi minaccioso.

Ritirata! urlò Fadel Abbas. I suoi giannizzeri, ben addestrati, imboccarono di corsa, in fila indiana, la porta da cui erano entrati, mentre la retroguardia difendeva il passaggio e lanciava candelotti fumogeni. Non tutti purtroppo. Uno di loro, Ismail ben Yussuf giaceva a terra morto tra i materiali scenici fracassati, con il petto trapassato da un colpo di pistola.
In buona compagnia, però: erano a decine gli avventori a terra, calpestati a morte o con la testa spaccata.
Il sistema antincendio, entrato tardivamente in azione, inondava il tutto d’acqua e schiuma.

Una cosa era certa: la festa era irreparabilmente rovinata e Mitra, il mandriano delle stelle, era stato ben vendicato.



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